Berlino, Deutsche Oper, “Parsifal” di Richard Wagner
PARSIFAL A TABLEAUX VIVANTS
Parsifal è un’opera contemplativa e antinarrativa per definizione: in scena succede ben poco, ma in compenso viene raccontato tanto. Philippe Stölzl, giovane cineasta e regista tedesco che firma la nuova produzione in scena alla Deutsche Oper, affida alle immagini didascaliche di tableaux vivants il compito di commentare e chiarire il racconto del libretto e l’espediente funziona.
La scena di Conrad Moritz Reinhard (coadiuvato dallo stesso regista) è un nudo presepe di pietre e roccia dove una gola separa due alture: sulla sinistra si erge in lontananza un castello, mentre a destra una sorta di Golgota ospita azione e rappresentazione.
Durante il preludio viene ricostruita la scena della morte sulla croce di Cristo il cui sangue viene raccolto in una coppa. Le luci sapienti di Ulrich Niepel, con riferimenti chiari alla tradizione figurativa caravaggesca, contribuiscono a far affiorare dal buio i movimenti lentissimi e quasi impercettibili di Cristo, delle donne e dei soldati romani, ma anche di Kundry, sorpresa in un riso di scherno che ne chiarisce il peccato originale.
Anche il racconto di Gurnemanz viene accompagnato da una serie di quadri che, oltre a chiarire la storia di Titurel, Amfortas e Klingsor, c’immergono in un clima rituale da sacra rappresentazione adatto a Parsifal.
Tracce di medioevo e barbarie inserite in un retroterra biblico creano una situazione riconoscibile da un punto di vista storico e iconografico collocandola al tempo stesso nel mito.
Nella gola sfilano cavalieri in abiti medievali con la croce rossa sul petto e uomini che si flagellano le carni nude per assistere al rito; i movimenti lenti e ondeggianti sono carichi di tensione ed esprimono uno “ streben” drammatico destinato al fallimento, come i corpi dei cavalieri che crollano a terra senza riuscire a salire sul Golgota.
Uno dei meriti della regia è proprio il movimento preciso e tesissimo, dal ralenti suggestivo, con cui vengono messe in posa e scolpite le masse, movimento che conferisce alla musica incantatoria di Wagner maggiore fisicità e pregnanza drammatica.
Il secondo atto risente di influenze kolossal-cinematografiche e ricrea un tempio inca con un varco che si tinge di rosso: Klingsor è intento a compiere un sacrificio umano attorniato da donne velate di arancio con il viso dipinto di sangue, poi fanciulle fiori desnude. La scena barbarica depura l’episodio delle fanciulle fiori di scorie liberty e prepara l’accensione drammatica del bacio fra Kundry e Parsifal che qui avviene attraverso il velo nero di lei: più morte che amore.
Il terzo atto è immerso in una luce verde, il castello di Monsalvat è in rovina e si percepisce un senso di gelo, Gurnemanz in stampella e abiti contemporanei è attorniato da un coro muto e immobile che amplifica il racconto intriso di disperazione del vecchio cavaliere.
In una scena di notevole violenza psicologica, i cavalieri in corteo frustano a sangue Amfortas che avanza a fatica sotto il peso della croce e si arrampica strisciando sul Golgota per assistere al rito dopo aver spaccato il vetro della bara del padre. Alla fine Amfortas, toccato dalla lancia, muore, Parsifal viene incoronato e Kundry fra la folla che leva le mani coperte di stigmate al cielo farà dardeggiare per un’ultima volta il suo doloroso sorriso.
In giacca e cravatta a marcare la sua estraneità in un contesto impregnato di storia e misticismo, Klaus Florian Vogt restituisce con freschezza e ingenuità i tratti adolescenziali del puro folle, ma, se nel tratteggiare il personaggio di Lohengrin era assolutamente perfetto, il suo Parsifal è fin troppo statico e luminoso e non trovano il giusto rilievo lacerazione e maturità dolorosa. Ma anche in questa occasione non si può restare indifferenti al timbro cristallino di una voce dalla perfetta emissione e dizione strepitosa: nessuna forzatura nei passaggi più ardui, il suo ben tenuto “Erloeser” suona estatico e ultraterreno e nel terzo atto la dolcezza del canto si fa commovente.
La Kundry di Evelyn Herlitzius convince per la fisicità intensa, palpabile nell’agile strisciare a cosce nude, la bellezza da Maddalena barbarica, lo sguardo ed il sorriso enigmatici e allucinati. Il canto drammatico e vibrante dà pieno risalto al testo, morbidi e rotondi gli affondi nel grave, un po’ metallici gli acuti e al suo “lachte” manca il brivido.
Inarrivabile il Gurnemanz di Matti Salminen per gravitas e autorità scenica, ma anche per la voce piena, incredibilmente suggestiva e possente nonostante la lunga carriera: ha conferito tale varietà espressiva al suo racconto che per una volta ci è sembrato breve.
Coinvolgente sulla scena e vocalmente corretto l’Amfortas del giovane Alejandro Marco-Buhrmester; non abbastanza incisivo il Titurel di Albert Pesendorfer; magnetico e possente il Klingsor di Thomas Jesatko; fra le fanciulle fiori un plauso alla prima, interpretata da Hulkar Sabirova.
Se alla prima (ma non alla replica a cui abbiamo assistito) la regia è stata fischiata, unanime consenso ha ricevuto la direzione musicale di Donald Runnicles che ha offerto una lettura asciutta e drammatica, più attenta a privilegiare con un uso marcato di pause e crescendi la componente teatrale (in perfetta sintonia con la regia) che non a ricercare un preziosismo sonoro. La massa orchestrale, in molte esecuzioni protagonista, viene qui subordinata alle esigenze di un canto che sconfina spesso nel parlato e l’orchestra sostiene i cantanti senza coprirli. Ottima la prova dell’orchestra e del coro diretto da William Spaulding particolarmente coinvolto (e coinvolgente) a livello scenico. Puntuale l’apporto del corpo di ballo della Deutsche Oper.
Lunghissimi applausi alla fine con ovazioni a Salminen, Herlitzius, Vogt e Runnicles.
Visto a Berlino, Deutsche Oper, il 25/10/2012
Ilaria Bellini